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Un profeta che scuote le coscienze

A Lampedusa Papa Francesco ha testimoniato a tutti che la profezia non è, come spesso si crede, la capacità di prevedere il futuro ma indica, nella Bibbia, lo sguardo con cui si comprende, nel suo vero significato, il presente. Profeta è chi va oltre gli angusti confini delle esigenze e degli interessi contingenti, su cui si sbranano le fazioni umane, e guarda al mondo e alla storia con gli occhi di Dio.
In un contesto in cui c’è chi ha considerato il suo viaggio a Lampedusa come una inaccettabile legittimazione del reato di clandestinità (Magdi Allam su «Il Giornale» di ieri) e chi vi ha visto un’apertura verso le posizioni della sinistra sull’immigrazione, Francesco ha parlato, semplicemente, come un profeta.
La voce era dimessa, l’italiano a tratti un po’ maccheronico, ma le sue parole sono piombate come un macigno su una società consumistica abituata a considerare tutto – la gioia e il dolore, la vita e la morte degli esseri umani, il cristianesimo, questo stesso viaggio – come oggetti su cui gettare uno sguardo annoiato, gridando, in nome di Dio, che tutto questo è disumano e tradisce alla radice il senso dell’esistenza. Perché queste parole non erano rivolte agli immigrati, ma a noi. E il colore dei paramenti della messa, il viola, utilizzato dalla liturgia sia per le cerimonie funebri che per quelle penitenziali, non era appropriato solo agli stranieri morti in mare, ma anche agli italiani e, in generale, agli europei vivi e tranquilli nelle proprie belle case, incapaci non solo di muovere un dito per aiutare i disperati che chiedevano aiuto, ma perfino di piangere sulla loro tragica fine. «Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle?», si è chiesto il papa. Senza dire che forse tanti di questi educati e civili cittadini hanno dato man forte, almeno col loro silenzio, a un sistema perverso che, per tutelare i ricchi, condanna a morte i poveri.
«Signore», ha detto Francesco durante l’omelia, «in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza chiediamo perdono per l'indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all'anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi».
Qualcuno ha visto un’analogia tra il grido di Giovanni Paolo II nella valle dei templi e quello dell’attuale pontefice a Lampedusa. In entrambi i casi la Chiesa si è dimostrata d’un tratto, quasi di sorpresa, portatrice di una profezia che va oltre le sue povere dimensioni umane, i suoi scandali, le sue miserie. Ma ci sono profonde differenze. La denunzia di papa Woytjla era più circoscritta e, in un certo senso, più riconducibile ai canoni della nostra cultura politically correct. Tutti coloro che non fossero mafiosi potevano condividerla e apprezzarla. Quella di papa Bergoglio colpisce al cuore proprio questa cultura. Non è rivolta contro i “barbari”, ma afferma che i barbari siamo noi, col nostro individualismo irresponsabile, che ci affoga nell’anonimato di una massa senza volto e ci rende incapaci di farci carico personalmente del destino degli altri, perché troppo intenti a inseguire l’effimero che le mode ci impongono.
«Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Oggi nessuno si sente responsabile di questo, guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino” e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza».
Il problema non riguarda dunque solo l’Italia: siamo davanti alla «globalizzazione dell’indifferenza». Si parla tanto dei problemi che la mondializzazione in atto suscita a livello finanziario, economico, culturale. Non ci siamo accorti che essa è accompagnata da un dilagante vuoto spirituale che, al di là della tematica strettamente religiosa e a maggior ragione dei confini confessionali, rischia di uccidere le nostre anime, determinando quella «anestesia del cuore» di cui parlava prima il papa.
«Ma Dio chiede a ciascuno di noi: “Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?”». La voce di Dio risuona d’improvviso, rompendo la bolla di sapone dell’effimero, e ci risveglia dal sonno dell’anestesia. A una società di individui ossessionati dal tema dei (propri) diritti, ricorda che ci sono anche quelli degli altri, che implicano da parte nostra dei doveri. Ma è una liberazione. «A ciascuno di noi», omologati da una cultura che ci rende «senza nome e senza volto», viene chiesto di riscoprire la propria unica identità, di essere finalmente se stesso, assumendosi, per la prima volta, la responsabilità del sangue di suo fratello.
Un’ultima cosa va detta, di questo viaggio. I profeti non parlano solo per illuminare il senso della storia, ma per cambiarla. E anche papa Francesco non ha voluto soltanto riscuotere noi, i dormienti, dai nostri tristi sogni autoreferenziali, ma spingerci ad assumere atteggiamenti interiori nuovi che si traducano in scelte coerenti. Come lo stesso Francesco ha detto, egli è venuto «a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta». Mai più.
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